Un paio di domeniche fa sono andata a visitare la mostra“Moda e Pubblicità in Italia dagli anni 1950 fino agli anni 2000”. L’esposizione si tiene – e continua a tenersi – presso la Fondazione Magnani Rocca, una galleria d’arte non molto distante dalla mia zona di residenza. L’intera rassegna è allestita nei saloni adiacenti a quelli che ospitano stabilmente opere capitali di Tiziano, Dürer, Van Dyck, Goya, Canova, Renoir, Monet, Cézanne, Morandi e molti altri.
Purtroppo non era consentito scattare fotografie e, francamente, non ne ho compreso il motivo, considerando che molti di quei manifesti si trovano anche online e da lì ne ho scaricate alcune, giusto per illustrare ciò che intendo dire nel confronto tra passato e presente.
Ammirando la cartellonistica esposta, che spaziava dai marchi di abbigliamento a quelli alimentari, ci si rende conto di quanto il marketing sia cambiato nel tempo. Lo so bene, poiché fa parte del mio percorso di studi e, purtroppo, quegli stessi studi avevano già abbracciato con precisione l’andamento odierno.
Per fare qualche esempio: negli anni ’50 lo stile promozionale era caratterizzato da illustrazioni eleganti e slogan rassicuranti, dal tono familiare. I messaggi erano veicolati attraverso i media dell’epoca – manifesti, riviste, radio – e i temi ricorrenti erano la famiglia, il benessere domestico, la fiducia nel futuro.
Negli anni ’60, con il boom economico e l’ingresso della televisione nelle case, tutto cambia a favore della spettacolarizzazione. Le campagne pubblicitarie iniziano a raccontarsi attraverso sketch e mini-storie: il Carosello ne è stato un esempio emblematico. Fanno la loro comparsa anche le prime riviste patinate. I temi diventano più leggeri, d’intrattenimento, i personaggi memorabili: basti pensare a Mina per Barilla o a Calimero per il sapone Ava. La fiducia nel prodotto veniva rafforzata dalla simpatia del testimonial.
Già negli anni ’70 il settore pubblicitario inizia – ahimè – a cambiare, occupando la creatività e la provocazione, in sintonia con il clima di contestazione e la nascita di nuovi modelli sociali. I toni diventano ironici, sperimentali, talvolta provocatori, e si diffondono attraverso televisione, cinema e poster urbani. Chi li ricorda, penserà subito alle campagne Fiorucci firmate da Oliviero Toscani. I temi dominanti erano libertà, identità, rottura con il passato.



Negli anni ’80 la pubblicità evolve ancora, riflettendo un’epoca in cui tutto diventa professione e status. Le fotografie si fanno patinate, gli slogan incisivi, e i brand vogliono distinguersi con precisione e personalità, riconoscibili attraverso nome, logo, colori e altri elementi visivi. I media di riferimento diventano le TV commerciali, le riviste di moda, i gadget. Il messaggio che emerge è quello del successo, della bellezza, della desiderabilità.
E fin qui tutto ancora bene, abbastanza nella norma. Ma è proprio a partire dagli anni ’90, fino ad arrivare ai giorni nostri, che la pubblicità nasce e si trasforma sotto l’impulso della globalizzazione e della digitalizzazione. Sono cambiati i contesti di riferimento: Internet, multiculturalismo, nuove tecnologie. Lo stile contemporaneo si fonda su minimalismo, storytelling emozionale, viralità. Ogni contenuto è pensato per essere condiviso, e anche le campagne pubblicitarie partecipano attivamente a questa logica di diffusione.
Ai giorni nostri le promozioni non solo introducono, ma devono introdurre – e io ne sono testimone diretta – inclusività, emozione, lifestyle. Ed è proprio sull’emozione che, nel mio lavoro, mi trovo spesso a fare a pugni. In poche parole, non mi va giù. Perché queste emozioni, oggi, mirano a rappresentare l’intimità del consumatore: qualunque prodotto, che si tratti di uno shampoo, di un alimento, di un capo d’abbigliamento o di un’automobile, deve essere evocato attraverso l’emozione del potenziale cliente.
Personalmente, tutti questi passaggi li ho studiati, impacchettati sotto l’etichetta di “evoluzione della pubblicità”. E a distanza di anni, rivedere e toccare con mano questa trasformazione mi ha fatto un certo effetto, devo ammetterlo. È inevitabile che io abbia fatto dei paragoni: un tempo, a differenza di oggi, veniva esaltato il prodotto in sé. Un esempio sono le promozioni dei marchi di abbigliamento Facis e Marzotto; un altro esempio lampante era la cartellonistica della campagna dell’aranciata San Pellegrino, oppure quella dei dadi Star – come si può ben vedere dalle immagini dell’epoca.




Anche gli spot pubblicitari, erano piccoli sketch simpatici in cui il prodotto compariva solo alla fine. I manifesti pubblicitari – che allora venivano incollati in appositi e ampi spazi riservati alla pubblicità – non erano mai così prorompenti come invece oggi pretende, anzi impone, la réclame.
Tutto era più delicato, più lineare. Al contrario di oggi, dove ogni campagna pubblicitaria – sia video che cartacea – sembra dover essere per forza aggressiva, invadente, urlata; anche la più semplice delle promozioni deve toccare l’intimità del consumatore. Che si tratti di shampoo, generi alimentari, abbigliamento o automobili, la promozione sembra voler vendere un sogno. E questo si nota chiaramente, ad esempio, nelle campagne pubblicitarie delle auto: basta osservare con attenzione.
Mi ha fatto piacere rivedere la grafica e le fotografie dell’epoca, osservare come venivano interpretate dagli autori. Di alcune ho persino un ricordo nitido, nonostante fossi ancora una bimbetta. Eppure già allora mi soffermavo a guardare le promozioni sulle riviste che compravano mia mamma e mia zia, come Confidenze, Gioia e altre del periodo. Per quanto piccola fossi, e benché non sapessi – e forse ancora oggi non saprei – cosa intendessi davvero dire in termini di ruolo, già allora affermavo che da grande avrei voluto lavorare nel mondo della pubblicità. Ne sono sempre stata affascinata.
Ora che sono adulta, e che la pubblicità è diventata il mio lavoro, continuo a esserne entusiasta, soprattutto per l’aspetto creativo che ogni campagna, cartacea o video, porta con sé. Amo lavorare in questo settore. Tuttavia, come accennavo sopra e per i motivi che ho descritto, a volte mi trovo costretta a fare dei compromessi con il mio sentire. Tra ciò che vorrei esprimere nel mio lavoro e ciò che invece impone la legge del marketing, più di una volta mi sono trovata in difficoltà. Cerco sempre una mediazione, una via di mezzo tra la mia visione sicuramente più morbida, più umana, e le regole che oggi devono necessariamente rispecchiare le logiche della propaganda moderna.
Il mondo della pubblicità nel suo incessante mutare, ha saputo vestire i sogni del tempo, ma purtroppo anche svuotarli, trasformandoli in simulacri. Ha reso il desiderio un prodotto, l’identità una confezione, la libertà una scelta tra marchi. E in questo processo, ha spesso oscurato il pensiero critico, anestetizzato il dubbio, reso il consumo un rito quotidiano.
Pier Paolo Pasolini, già negli anni ’70, denunciava con lucidità questa deriva:
“La pubblicità è la voce di un potere che non ha volto. È il vero linguaggio della nuova religione del consumo.”
Con queste parole, voleva invitarci a guardare oltre l’apparenza, a riconoscere nella seduzione pubblicitaria non solo un gioco di immagini, ma una forma di dominio culturale.
Oggi, guardando indietro, non posso che chiedermi: quanto di ciò che abbiamo desiderato ci ha davvero resi più liberi? E quanto, invece, ci ha resi spettatori di noi stessi?


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