
Negli ultimi giorni riprendendo a sfogliare una rivista di mio interesse che parla di arte, ho scoperto che il Castello di Rivoli Museo per l’Arte Contemporanea fino al prossimo 21 settembre, presenta Rebecca Horn con “Cutting through the past”, una retrospettiva dedicata all‘artista tedesca, scomparsa lo scorso anno.
Nel corso della sua carriera, Rebecca Horn ha instaurato un legame speciale con il Castello di Rivoli e la città di Torino. La sua opera “Piccoli Spiriti Blu”, parte del progetto “Luci d’Artista” è situata sul Monte dei Cappuccini ed è tra le installazioni più amate dai torinesi. Inoltre, l’artista prese parte alla storica mostra “Ouverture”, curata da Rudi Fuchs, con cui nel 1984 venne inaugurato il Castello di Rivoli.

La mostra in corso presso il Castello di Rivoli si trova nella Manica Lunga. Questa retrospettiva è la prima dedicata a Rebecca Horn in Italia in uno spazio istituzionale dopo la sua scomparsa. Sebbene non sia una mostra particolarmente ampia, si parla di circa trentacinque opere esposte tra disegni, video, sculture e installazioni, sono state selezionate con grande cura e presentate in un allestimento eccellente. Realizzata in collaborazione con la “Haus der Kunst” di Monaco di Baviera, la mostra è curata da Marcella Beccaria.
Rebecca Horn (Michelstadt, 24 marzo 1944 – Bad König, 6 settembre 2024) è stata una rinomata scultrice, regista e performance artist tedesca, celebre per le sue innovative “estensioni corporali”. Queste opere esplorano il rapporto tra corpo e spazio attraverso prolungamenti fisici che amplificano il gesto umano.
Rebecca Horn apprese l’arte del disegno dalla sua governante rumena e sviluppò un’autentica fascinazione per questa forma di espressione, percependola come immensamente più libera rispetto alla comunicazione verbale. Questa inclinazione si rivelò cruciale per il suo percorso artistico, in particolare nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. La Horn ha sempre raccontato che dopo il conflitto, si trovava spesso a evitare di parlare tedesco, poiché avvertiva un profondo sentimento di ostilità nei confronti della sua nazionalità. Il disegno divenne così il suo rifugio creativo, un linguaggio universale che trascendeva dalle difficoltà legate alle differenze linguistiche: non doveva “disegnare in tedesco, francese o inglese”, ma semplicemente dare forma alla sua visione.
I suoi genitori la indirizzarono in un percorso di studi in economia, ma all’età di 19 anni si ribellò a questa prospettiva e scelse di seguire la propria vocazione artistica, iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti di Amburgo. Tuttavia, l’anno seguente fu costretta ad abbandonare gli studi a causa di una grave intossicazione polmonare, che secondo il suo racconto, ebbe origine nel 1964 a Barcellona, quando lavorava senza adeguate protezioni con la fibra di vetro.
Il periodo di convalescenza in ospedale, aggravato dalla perdita dei genitori, mise a dura prova il suo equilibrio psicologico, portandola a isolarsi dal mondo. Tuttavia, proprio questa fase difficile divenne l’elemento scatenante della sua arte.
Dopo aver superato la fase di isolamento, iniziò a realizzare sculture e peculiari estensioni corporee utilizzando balsa e tessuti, con l’intento di combattere la solitudine attraverso il linguaggio delle forme. Rientrata ad Amburgo, proseguì il suo percorso creativo, dando vita a opere che evocavano bozzoli, “body extensions” rivestite e fasce prostetiche. Sul finire degli anni Sessanta, si avvicinò alla “performance art”, senza però abbandonare la produzione delle sue celebri “body extensions”.

Molti critici del periodo degli anni ‘70 associarono l’opera di Horn al movimento delle artiste femministe, che sfruttavamo il potere espressivo dell’arte per affermare la propria visione. Attraverso le loro opere, queste artiste trasformavano l’arte in uno strumento di espressione totale, affrontando tematiche delicate per l’epoca. Tra queste, il tema della sessualità occupava un posto centrale, inteso come affermazione della libertà di esprimersi e vivere al di fuori di pregiudizi e stereotipi.
Tra le sue più iconiche opere si considerano:
Einhorn (Unicorno) è una delle opere più iconiche di Rebecca Horn, e il titolo gioca ironicamente con il suo stesso cognome. Realizzata come body extension, questa scultura performativa fu indossata da una donna durante una camminata attraverso un paesaggio rurale, trasformando l’atto quotidiano del camminare in un gesto poetico e visionario. L’opera si compone di una struttura che si innalza dal capo come un lungo corno, saldamente fissata al corpo tramite cinghie che evocano i corsetti ortopedici indossati da Frida Kahlo, suggerendo una tensione tra costrizione fisica e slancio immaginativo.

Finger Gloves è il titolo sia della performance sia della suggestiva body extension ideata da Rebecca Horn. L’opera consiste in una coppia di guanti le cui dita, prolungate attraverso leggere strutture in balsa e tessuto, trasformano la mano umana in uno strumento delicato e alieno, amplificando il gesto e la percezione tattile. Questo intervento scenico esplora il confine tra corpo e spazio, ridefinendo la relazione fisica tra l’individuo e l’ambiente circostante.

Un progetto affine è Touching the Walls with Both Hands Simultaneously (1974), in cui Horn concepì una simile estensione delle dita, calibrata in modo tale che, posizionandosi al centro di una stanza, la performer potesse toccare contemporaneamente due pareti opposte. Entrambe le opere indagano la tensione tra desiderio di contatto e impossibilità fisica, evocando una nuova grammatica del corpo e dell’azione.
Feather Fingers (Guanti di piume, 1972) è un’altra delicata esplorazione dell’illusione tattile e della percezione corporea, centrata — ancora una volta — sulle mani. L’opera consiste in sottili piume fissate a ciascun dito tramite anelli metallici, concepite da Rebecca Horn affinché la mano assumesse la simmetria sensibile di un’ala di uccello. Durante la performance, l’artista sfiora un braccio con le piume indossate sull’altra mano, generando una sensazione percettiva straniante: avverte il tocco come proveniente dalle dita della mano opposta, pur essendo le piume e non le dita, a stabilire il contatto.
Secondo Horn, in questo sdoppiamento percettivo “è come se una mano, improvvisamente, diventasse disconnessa dall’altra, come se si trattasse di due esseri senza alcun collegamento”. L’opera attiva è una riflessione poetica e perturbante sulla frammentazione del corpo e sull’ambiguità della percezione sensoriale.
Un’altra sua performance che mi ha impressionata per la genialità è Pencil masch (1972) le estensioni corporee vengono applicate direttamente sul volto, creando l’illusione di una piccola gabbia. Ciglia verticali e orizzontali si incontrano sul volto della donna protagonista, con matite attaccate nei punti di congiunzione tra gli elementi.
La maggior parte delle testimonianze che riguardano le sue performance come avrete notato, sono in forma di registrazioni video.
Rebecca Horn continuò a utilizzare le piume negli anni Ottanta e Novanta, concentrandosi in particolare sulla creazione di occhiali da sole. Molte delle sue opere piumate avvolgono la figura come un bozzolo, oppure prendono la forma di maschere e ventagli, concepiti per coprire o imprigionare il corpo. Tra queste possiamo ricordare “Cockfeather” (Piume di gallo, 1971), “Cockfeather Mask” (Maschera di piume di gallo, 1973), “Cockatoo Mask” (1973), “Paradise Widow” (Vedova del Paradiso, 1975) e “The Feathered Prison Fan” (Il ventaglio-prigione di piume, 1977), ideato per il suo film “Die Eintänzer”.

Le opere di Rebecca Horn furono, a suo dire, ispirate agli scritti di Franz Kafka e Jean Genet, così come ai film di Luis Buñuel e Pier Paolo Pasolini.
Per i motivi che ho già descritto, Rebecca Horn ha sempre avuto un legame speciale con la città di Torino. Tuttavia, la sua notorietà in Italia non si limita al capoluogo piemontese: anche a Napoli è ben conosciuta, al punto che una sua opera è stata esposta nella celebre Piazza del Plebiscito.
Tutto ebbe inizio grazie alla volontà dell’allora presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, che nel 2002 commissionò a Rebecca Horn un’installazione artistica per celebrare le festività natalizie e il Capodanno 2003. L’opera, intitolata “Spiriti di Madreperla“ era composta da 333 teschi fusi in ghisa, incastonati nel selciato della piazza. Al termine dell’esposizione, ne furono contati meno: alcuni esemplari furono infatti trafugati. In un’intervista, l’artista spiegò di essersi ispirata al suggestivo “Cimitero delle Fontanelle“ di Napoli, noto per il suo ossario e il legame con la cultura popolare della città.

A completare l’opera, “77 cerchi al neon” sospesi sopra la piazza come aureole, creavano un forte contrasto visivo con i teschi sottostanti. Questo dualismo, secondo Horn, esprimeva il significato profondo dell’installazione: la tensione tra morte e luce, memoria e trascendenza.

Come previsto, i teschi vennero rimossi il 31 gennaio 2003, ma l’opera suscitò accese reazioni tra cittadini e visitatori, dividendoli tra fascino e turbamento. Alcuni dei teschi originali sono oggi parte della nuova installazione ”Spiriti”, esposta presso il Museo Madre di Napoli.


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